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Miart 2023 - Bénédicte Peyrat

Cosa resta delle vibrazioni nel mare della simulazione
Sei artisti visti al Miart 2023: Bénédicte Peyrat, Jenni Hiltunen, Danilo Buccella, João Vilhena, Émilie Pitoiset e Tenant of Culture

Fra qualche giorno, dal 12 al 14 aprile 2024, si terrà la 28esima edizione del Miart, la fiera internazionale d'arte moderna e contemporanea di Milano. 178 espositori provenienti da 28 paesi presenteranno più di mille opere di artisti moderni e contemporanei, affermati ed emergenti.
Quest'anno il tema scelto dal direttore artistico Nicola Ricciardi è "No time no space", citazione di una canzone di Franco Battiato che parla di "mondi lontanissimi, civiltà sepolte, continenti alla deriva", "dell'amore che si fa in mezzo agli uomini", di "viaggiatori anomali in territori mistici", e della "corsa delle vibrazioni" nel "mare della simulazione".
Un tema sicuramente più impegnativo del banale "Crescendo" che era il tiolo della precedente edizione. Anche se di banale nelle opere presentate nel 2023 c'era ben poco. Tanto e vero che molte cose viste l'anno scorso restano vive nella memoria.
Tra le cose interessanti ammirate e fotografate un anno fa, abbiamo scelto le opere di sei artisti, scorrendo le quali, in questa piccola carrellata di immagini, forse si può trovare un filo conduttore. Parlamo di Bénédicte Peyrat, Jenni Hiltunen, Danilo Buccella, João Vilhena, Émilie Pitoiset e Tenant of Culture.

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Bénédicte Peyrat

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Bénédicte Peyrat

Le opere di Bénédicte Peyrat, pittrice francese presentata dalla galleria Ribot di Milano, ricordano un po' i dipinti dei grandi artisti europei del seicento. Ma nei suoi paesaggi agresti con cieli trascoloranti – come il quadro in apertura di pagina, intitolato "Completa e libera", del 2018 – i protagonisti sono figure tozze, tratteggiate in modo grossolano, con uno sguardo vacuo o beffardo, l'antitesi del ritratti di nobili di Rembrand o van Dyck.
Nella seconda opera, "Il sogno e la giustizia", sempre del 2018, si aggiungono elementi simbolici, come la bilancia e la corona, che contrastano con la sgraziata figura di nudo e contribuiscono a rendere difficilmente decifrabile il senso dell'opera.
Interessante in questo caso il tentativo di superare la forma quadro, come abbiamo già visto negli artisti di Glitch: Peyrat ambienta infatti il dipinto su una parete ricoperta di acquerelli dai colori tenui, mantenendo la promessa che dà il titolo alla serie, "Ecco, faccio qualcosa di nuovo", un versetto biblico tratto dal Libro del profeta Isaia, che serve se non altro ad aggiungere un ulteriore elemento di complessità e ambiguità all'opera.

Bénédicte Peyrat, "Ecco, faccio qualcosa di nuovo", Ribot Gallery, Milano

Bénédicte Peyrat, "Où en est l'herbe", Thomas Rehbein Galerie, Colonia


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Jenni Hiltunen

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Jenni Hiltunen

Che fanno le modelle quando non sono in posa? Se lo chiede l'artista finlandese Jenni Hiltunen e risponde con le sue opere, che sono una critica della "posing culture", quella moda contemporanea di mostrare la realtà con immagini perfette e patinate da esibire su Instagram e gli altri social. Più che una modella, la sua "Sad Girl" in ceramica smaltata portata a Miart 2023 dalla galleria Mimmo Scognamiglio di Milano, sembra però una ragazzina qualunque, molto poco glamour, vestita in modo dimesso e con uno sguardo triste perso nel vuoto. Ha l'aria da modella invece la protagonista di "Glasshouse", olio su tela del 2022. Una modella stanca di posare, colta in un atteggiamento scomposto e rilassato, come tutte le donne "sgangherate" (come le ha definite qualcuno) di questa serie di quadri che riecheggiano i colori di Matisse e le forme delle maschere cubiste. Il maestro francese dei Fauves è in effetti uno degli autori preferiti di Hiltunen,come lei stessa confessa in un'intervista, citando tra le sue muse ispiratrici anche la sudafricana Marlene Dumas ("adoro i suoi dipinti") e l'inglese Alice Neel.

Il sito di Jenni Hiltunen

Jenni Hiltunen alla Galleria Mimmo Scognamiglio

Jenni Hiltunen su Instagram

"In the Studio. Jenni Jhiltunen, Helsinky", Collectors Agenda, 2016


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Danilo Buccella

Danilo Buccella, nato a Liestel in Svizzera nel 1974 (ma vive e lavora a Milano e New York) è stato definito un pittore noir, gotico, decadente e in ognuna di queste definizioni c'è qualcosa di vero visto che lui stesso racconta in un'intervista di dipingere scenari dalle atmosfere misteriose, perché è affascinato dalle tenebre, dai racconti dell'orrore, dalle illustrazioni di Beardsley, da Gide, Wilde, Verlaine, dai romanzi delle sorelle Brontë, dalle saghe dell'Europa settentrionale. La sua biografia l'ha portato in questa direzione: "Per vent'anni ho vissuto in Svizzera ed ho respirato le atmosfere rarefatte del Nord: in particolare mi hanno influenzato le architetture gotiche di Amsterdam, di Basilea, di Copenaghen, ma soprattutto mi ha stregato Praga. Queste panoramiche urbane, che hanno lasciato una traccia indelebile nella mia memoria, a un certo punto sono riemerse come sensazioni, che hanno contribuito alla elaborazione del mio immaginario visivo".
I temi dei quadri di Buccella – come le due amiche di fronte al caminetto di "Friends", olio su tela del 2023 – sono scene di apparente tranquillità, ma "sappiamo che anche alla luce del giorno si può arrivare alla rappresentazione interiore del buio profondo", confessa . "Non cerco il nero del gotico o delle tenebre, ma l'intimità e la profondità dei modi di vivere i lati oscuri della nostra mente. L'immaginario a cui mi ispiro è semplicemente la mia vita con tutte le sue deviazioni".
Le sue figure sono vestali del mistero, ancelle dell'inquietudine: "Le dipingo con la testa grande e il corpo piccolo, con la struttura ossea allungata come quella degli adulti. Così nasce l'ibrido inquietante tra la bambina e la donna, che possiede sia la malizia dell'infanzia sia quella dell'esperienza, della vita".
Tra gli artisti contemporanei dice che il suo preferito è l'islandese-danese Olafur Eliasson, famoso per le sue installazioni immersive, oggetto due anni fa di una grande mostra a Palazzo Strozzi, a Firenze.

Danilo Buccella alla Wizard Gallery

Jacqueline Ceresoli, "Danilo Buccella. Cuore di tenebra sotto il Duomo", Stile Arte, 12 Luglio 2016


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João Vilhena

"Beau à la louche", il titolo dell'opera o meglio della serie di opere di João Vilhena presentate al Miart dalla Galleria Alberta Pane di Venezia, si riferisce a qualcosa che è considerato bello in modo non preciso o rigoroso, ma piuttosto approssimativo, a occhio. "À la louche" è un'espressione idiomatica che può essere usata anche in senso ironico o sarcastico e che indica qualcosa di sospetto, di strano. E in effetti nelle sue opere l'artista portoghese finge, nasconde, sostituisce e traveste senza mai svelare del tutto ciò che c'è oltre, ma facendolo intuire.
Vilhena si definisce un illustratore ed è indubbiamente un virtuoso della matita. I suoi quadri sono immagini perfette, ispirate a vecchie foto e cartoline, che colleziona, immagini che ci introducono in un'atmosfera allo stesso tempo nostalgica ed erotica. Ma per lui è soprattutto lo sguardo sull'opera che ne attiva il significato. "Il tema centrale del mio lavoro", ha spiegato in un'intervista, "è un'esplorazione della teoria duchampiana secondo cui è l'occhio che crea l'opera". Deve essere, ovviamente, uno sguardo non superficiale, che sa cogliere gli indizi. Come nei trompe-l'oeil, quando ci si rende conto che l'immagine è stata costruita, ciò che appariva un oggetto antico si rivela una finzione e attraverso i nostri occhi c'è un cambiamento nella percezione e concezione dell'opera.

João Vilhena alla Galleria Alberta Pane

João Vilhena su Instagram

"L'autre chose à l'œuvre chez João Vilhena", Artistik Rezo, 16 luglio 2015

Adeline Pilon, "João Vilhena: Trough the Eyes of the Artist", Happening, 13 aprile 2015


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Emilie Pitoiset

Un guanto di pelle dipinto di rosa che tiene una copia di "Young Love", un vecchio romanzo dello scrittore e regista danese Johannes Allen. La genesi dell'opera – presentata a Miart dalla Klems Gallery di Berlino – la spiega l'autore, l'artista francese Émilie Pitoiset, : "'Young Love' è stato un regalo per il mio compleanno anni fa, firmato dai miei due cattivi ragazzi preferiti @theadventuresofluckypierre e @charlesteyssou. Dietro si nasconde la storia di Elena, una giovane donna che entra nella femminilità ma non l'accetta".
Le opere di Pitoiset combinano finzione e realtà, fotografie e collage, oggetti e performance. Grande collezionista di immagini, l'artista, che vive e lavora a Parigi, ha un interesse particolare per le fotografie d'archivio di varia provenienza, dai film famosi alle pellicole amatoriali. Per Pitoiset l'autore e l'origine dei suoi oggetti sono meno importanti della loro riappropriazione, riarrangiamento, ricomposizione.
Le sue opere sono elementi di una narrazione continua che gioca spesso con scenari inquietanti, enigmatici, noir e decadenti. Sono immagini e oggetti che introducono lo spettatore in un gioco di ruolo il cui scopo non è ancora stato svelato, ma che ha sicuramente a che fare con il desiderio, l'assenza, l'inconscio, l'eros.

Il sito di Émilie Pitoiset

Émilie Pitoiset su Instagram

Émilie Potoiset alla Klemm's Gallery


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Tenant of Culture

In Tenant of Culture i corpi scompaiono e rimangono solo i loro feticci, i loro simulacri: gli indumenti, una volta alla moda, recuperati nei magazzini e salvati dalla discarica. Tenant of Culture, che letteralmente significa Inquilino della cultura, è il nickname di una giovane artista olandese, Hendrickje Schimmel, nata nel 1990 ad Arnhem, che vive e lavora a Londra, uno dei centri europei della moda. Ed è proprio il mondo della moda al centro del suo lavoro artistico, che consiste nel decostruire gli indumenti per ricomporli in sculture antropomorfe.
Perché questo interesse per le moda? "Ho imparato a scuola che l'arte funziona come un bene di lusso, e ricordo di esserne rimasta davvero spaventata", racconta. "Così ho iniziato a creare cose che si distruggessero o scomparissero. Ciò che amo dell'arte è che riesce in qualche modo a contenere queste contraddizioni".
Il concetto di "inquilino della cultura" Schimmel l'ha preso in prestito da Michel de Certeau, antropologo francese che ha sviluppato una sua teoria della relazione gerarchica tra produzione e consumo, per mostrare che si possono contrastare le strategie dei produttori, come l'obsolescenza programmata (uno degli ingranaggi del meccanismo di consumo e di spreco), attraverso l'uso improprio e la reinterpretazione dei beni prodotti in serie.
Tenant of Culture utilizza i materiali e il linguaggio della moda per esplorare il problematico tema dei rifiuti accumulati nel ciclo di vita degli abiti. E nel fare ciò esamina i modi in cui le strutture ideologiche e di potere si materializzano nei metodi di produzione, circolazione e commercializzazione degli indumenti.
Le sue opere sono provocazioni, tendono a estremizzare i rapporti tra industria dell'abbigliamento, consumo e ambiente. E finiscono per dimostrare che essere eticamente corretti nel mondo della moda è impossibile.
L'opera nella foto è intitolata "Dry Fit" ed è composta da capispalla e abbigliamento sportivo riciclato, elastici, alamari, filo, tessuto, acciaio e alluminio.

Tenant of Culture alla Galerie Fons Welters

Philomena Epps, "Living in a Material World. A Conversation with Tenant of Culture", Flash Art, 7 settembre 2022

"Tenant of Culture. Interview by Vanessa Thill", Foundwork

Vera Risi, "Tenant of Culture a Londra: l’artista che fonde scultura e couture", ReWriters, 19 agosto 2022


(machebellezza.com - aprile 2024)

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